Il Magnificat, così come
sta nel terzo vangelo, di per sé non è un canto dell'uomo redento
e nemmeno della Chiesa redenta, perché Gesù doveva ancora nascere,
doveva ancora morire, risorgere, e la Chiesa non c'era ancora. Voglio
dire che a livello redazionale il testo di Luca, così come si presenta
a noi, ci dà un inno che non è dell'uomo o della Chiesa ma un inno
che è di Maria, posto chiaramente in bocca a lei. È un canto di
lode e di ringraziamento, che Maria pronuncia, proclama, in un determinato
momento della sua esistenza terrena.
Qui ci si può chiedere: è forse
possibile, nonostante ciò, una «espropriazione» del
canto del Magnificat e un suo passaggio dalla bocca di Maria
alla bocca dell'uomo redento, del cristiano, del battezzato, cioè
dell'uomo ecclesiale? Proprio questo dovremo tentare: operare un
passaggio dal momento in cui Maria ha pronunciato queste parole
al momento m cui Luca le ha scritte e il suo lettore (ciascuno di
noi) le pronuncia, ripetendole.
Ebbene, vorrei dire che una
espropriazione è possibile (e credo che abbiate compreso ciò che
intendo con ciò). È possibile, perché? È possibile anche soltanto
sulla base di una semplice constatazione della tematica del canto,
nel momento m cui esso viene pronunciato da Maria, secondo la redazione
di Luca. Voglio dire questo: secondo Luca, Maria in questo momento
è passata da Nazaret alle montagne della Giudea per fare visita
alla parente Elisabetta; siamo dunque in un momento ben preciso,
puntuale, della vita della Vergine, e appunto in questa occasione
ella pronuncia questo canto. Però l'ossenazione importante da fare
è questa: apparentemente non c'è nessun addentellato fra i contenuti
di questo canto e l'esperienza straordinaria che Maria deve aver
vissuto, secondo Luca, non solo in quel preciso momento con Elisabetta,
quando questa la proclama beata fra le donne, ma anche già in precedenza,
quando c'è stato il momento dell'annunciazione. Tant'è che a livello
critico, a livello di studi sul testo originale di questa pagina
lucana, alcuni pensano che sia stato possibile addirittura che il
Magnificat sia stato pronunciato, non da Maria, ma da altri;
per esempio, da Elisabetta. Questo è testimoniato in alcune varianti
manoscritte antiche secondo alcuni codici latini; in questo caso,
in Lc 1,46 invece di «allora Maria disse» si dovrebbe
leggere: «Allora Elisabetta disse» cioè, disse appunto
questo canto. Io qui suppongo molte cose, come il fatto che esso
è strettissimamente parallelo con il canto di Anna nel primo libro
di Samuele, cap. 2: la sterile Anna, dopo aver invocato la nascita
di un figlio (che sarebbe stato Samuele) lo ha ottenuto dal Signore
e allora esce in un canto, che anticipa molto da vicino il Magnificat.
Perciò, il caso di Elisabetta sarebbe molto più parallelo con il
caso di Anna che non il caso di Maria. Elisabetta, sterile, ha avuto
un figlio come la sterile Anna lo ha avuto. Ecco perché alcune antiche
varianti, ripeto, invece di «Maria» hanno letto «Elisabetta».
Bisogna dire, per la verità, che questo tipo di variante non è accettabile
a livello di critica testuale perché si tratta di attestazioni molto
scarse e molto tardive, quindi non sufficientemente solide per imporsi
come lezione originale del testo lucano. Ma è interessante sapere
che alcuni hanno visto meglio il canto del Magnificat sulla
bocca di Elisabetta che su quella di Maria.
Un'altra posizione, molto più
comune tra gli studiosi, è che in quel preciso momento della sua
vita, Maria sul piano storico sia uscita soltanto in qualche esclamazione
di lode e di glorificazione di Dio, in forma molto più contenuta
dell'attuale testo lucano. Effettivamente, l'introduzione che suona:
«Allora Maria disse», stona assai con l'introduzione
molto più solenne che Luca scrive per introdurre il canto di Zaccaria,
in 1,67: «Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e
profetò dicendo»; come si vede, l'introduzione è ampia e solenne,
e apre appunto l'inno del Benedictus, pronunciato da Zaccaria.
Invece per Maria semplicemente si scrive: «Allora Maria disse»,
come se si fosse espressa soltanto con una dichiarazione molto breve.
L'ipotesi che viene fatta, dunque, è che Maria abbia pronunciato
una qualche dossologia una frase di lode, e che poi invece, a livello
della tradizione orale della vita giudeo-cristiana primitiva, il
canto sia stato ampliato e sia poi finito, in questa stesura gonfiata,
nella redazione che Luca ci dà di questa pagina.
Effettivamente sorprende sempre
il fatto, a cui abbiamo già accennato, che Maria, dopo l'annunciazione
di unfatto tanto straordinario e sconvolgente (non sono cose di
tutti i giorni che a una donna si venga a dire: «Tu sarai
madre vergine di un bambino che è il Figlio di Dio») non faccia
diesso la minima parola nel Magnificat; infatti non c'è nessun
riferimento concreto a quella esperienza, che è una chiama-ta e
una missione senza paragone. Invece, nel Benedictus di Zaccaria
c'è qualche aggancio più concreto a quello che è statoil suo destino,
cioè di essere padre di Giovanni Battista, in- fatti si menziona
esplicitamente il «bambino».
Ecco dunque l'ipotesi: in bocca
a Maria viene messo un canto di lode, che la comunità cristiana
( = giudeo-cristiana) già pronunciava nelle sue assemblee liturgiche.
Difatti, il testo così come
suona potrebbe essere considerato benissimo come canto ebraico;
non vi è nulla di specificamente cristiano, non vi è nessun accenno
a Gesù, c'è semplicemente l'accenno a Dio che si è ricordato della
sua misericordia, come aveva promesso ai nostri Padri, ad Abramo
e alla sua discendenza.
Queste sono le ipotesi che
vengono formulate. La seconda in particolare è largamente condivisa,
almeno per quanto riguarda la seconda metà del Magnificat,
cioè dal v. 51 in poi.
Ma lasciamo da parte questo
problema, e chiediamoci a questo punto: un canto del genere può
essere anche espressione della fede cristiana? Può essere espressione
della comunità post-pasquale, della comunità del Risorto, la comunità
di coloro che hanno instaurato con Gesù crocifisso e risuscitato
un particolarissimo rapporto come tra salvati e Salvatore? Si potrebbe
fare, per esempio, un confronto fra il nostro testo lucano e un
altro inno della comunità cristiana primitiva, che troviamo in apertura
della lettera agli Efesini ( 1, 3-14). È un altro canto della chiesa
primitiva, atipicamente messo all'inizio di una lettera, che però
ha delle motivazioni cristiane molto evidenti: «Benedetto
sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo... A lode e gloria
della sua grazia, che ci ha dato nel Figlio diletto, nel quale abbiamo
la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati...
il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose...». Li
c'è davvero un piccolo schema di catechismo cristiano, che si fa
lode, si fa benedizione di Dio. È una fede che esulta, una fede
che trabocca, in qualche modo ritorna all'autore dei prodigi salvifici
sotto forma di esultanza e di glorificazione. Ma, ripeto, là il
contenuto è veramente più cristiano, ci sono delle espressioni esplicite
di fede cristiana.
Ebbene, nonostante tutto, anche
il Magnificat è stato conservato da Luca, ed è stato certamente
utilizzato dai primi cristiani come noi lo utilizziamo ancora oggi.
D'altronde, esso fa parte di quei pochi canti che si trovano sparsi
nel NT. Due sono nei primi capitoli di Luca, un altro è il prologo
del Vangelo di Giovanni, I'inno al Logos, un altro è questo dell'inizio
alla lettera agli Efesini, altri sono sparsi qua e là, anche se
più brevi, come nell'Apocalisse. Risulta in qualche modo sempre
un testo del NT, un testo in cui la comunità cristiana si riconosce.
Allora, in che modo la comunità cristiana può fare suo questo canto,
può rileggerlo, in che modo questo canto può diventare il canto
dell'uomo redento, il canto del cristiano?
Innanzitutto lo può diventare
semplicemente in quanto canto, in quanto inno di lode, e inno di
lode sobrio, tutto sommato anche generale, starei per dire generico,
senza riferimenti concreti agli eventi cristiani tipici. Proprio
per questo può adattarsi. È sobrio, semplice, ma è un canto in cui
la fede si riversa in espressioni di giubilo, e non si trasforma
soltanto in confessione o espressione didattica, ma diventa esultanza
dello spirito.
Vorrei qui citare un testo
di Lutero nel suo «Commento al Magnificat»; siamo
nell'anno centenario della nascita di Lutero e dobbiamo in qualche
modo anche noi rendergli omaggio. Nel suo bellissimo commento al
Magnificat, eglitra l'altro dice: «Queste poche parole
dello Spirito sono sempre così grandi e profonde che nessuno le
può comprendere senon chi senta almeno in parte lo stesso Spirito.
Per coloroche non hanno questo Spirito, questi parole sono di nessun
rilievo e del tutto senza gusto... Così insegna anche Cristo in
Matteo 6,7: che non dobbiamo dire molte parole quandopreghiamo,
perché così fanno gli infedeli che credono di essere esauditi per
le molte parole. Parimenti anche ora in tut-te le chiese si fa un
gran rumore con musiche,canti,grida,letture, ma io temo che ben
poca è la lode di Dio, volendo egli essere lodato in spirito e verità».
Davvero non sembranoparole di quattrocento anni fa!
E continua: «La situazione
è ben diversa se uno medita sulle azioni divine di tutto cuore e
le considera con ammirazione e gratitudine; egli trabocca d'amore
e sospira più che parlare e le parole sgorgano da sole senza essere
né pensate, né studiate, si che lo Spirito stesso si manifesta e
le parole hanno vita. Ciò significa lodare veramente Dio in spirito
e verità, essendo le parole fuoco, luce e vita, come dice Davide
nel Salmo 119: 'Signore, il parlare di te è tutto infuocato', e
ancora: 'Le mie labbra erompono in tua lode'. Come l'acqua calda
bollendo trabocca e spuma perché non si può più trattenere nella
pentola per il gran calore, di tal genere sono pure tutte le parole
della beata Vergine in questo canto. Poche, e pure profonde e grandi.
S. Paolo (Romani 12), chiama tali persone Spiritu ferventes,
gli «spiritualmente bol-lenti e spumanti» e c'insegna ad essere
cosi». Vedete com'ebella questa pagina di Lutero! Coglie una dimensione
pri-maria, semplice, fondamentale del canto del Magnificat,
che sgorga da uno spirito fervente, che trabocca, come (paragone
molto familiare, domestico direi) la pentola che non riesce più
a trattenere tutti i vapori dentro di sé.
Questa dimensione di traboccamento
è sempre qualcosa che deve caratterizzare l'uomo redento, perché
è stato ripieno dell'amore di Dio (cf Rom 5,5), è stato il
destinatario di una grazia, di un intervento salvifico che lo tocca
alle racdici.
Sarebbe anche interessante
vedere l'uso del verbo «magnificare», verbo raro nel NT. Esso viene
usato in Atti 10,46 a proposito del Battesimo dei primi pagani da
parte di Pietro, quando i fedeli circoncisi che erano venuti con
Pietro si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse
il dono dello Spirito Santo: «Sentivano infatti parlare lingue e
glorificare Dio»; cosi traduce la CEI, ma il verbo è lo stesso e
si dovrebbe quindi tradurre: «magnificare Dio».
Questi primi battezzati che
venivano dal paganesimo hanno magnificato Dio, cosi come Maria in
quel momento lo ha magnificato.
Lo stesso verbo viene usato
da Paolo in Filippesi 1,20 a proposito di una situazione diversa;
Paolo è in carcere e sta pensando alla propria sorte, che può essere
di liberazione o di condanna, e dice: «In ogni caso Cristo sarà
magnificato nel mio corpo». Qui si vede come l'Apostolo sa
di essere totalmente a servizio della lode di Dio, anche a livello
esistenziale, sia con la vita che con la morte.
Magnificare il Signore presuppone
di sapere dunque che c'è sempre lui sopra di noi, sempre lui più.
grande di noi. E il redento in quanto tale sa magnificarlo con un
canto nuovo. Nell'Apocalisse
di Giovanni, al cap. 14,3 si parla dei .santi, i «segnati», gli
eletti, che cantano davanti al trono un canto nuovo, il canto della
redenzione, il canto di una glorificazione, di una lode, per rendere
«magnificenza» a Colui che sta all'origine di tutta la novità cristiana.
Pensiamo anche ai testi di
Colossesi 3,16 (che è parallelo a Efesini 5,19), dove l'apostolo
invita i destinatari a lodare Dio, a inneggiare a lui cantando inni
e canti spirituali, cantando nel proprio cuore.
La dimensione del canto deve
caratterizzare il cristiano, se no che testimonianza rende? La redenzione
che ha toccato il cristiano deve esprimersi in questa dimensione
di esultanza, che poi non è l'esultanza neutra, quella dell'allegrone,
dello spens erato, ma è l'esultanza di chi sa da dove proviene la
sua nuova identità ed esulta in Dio, suo Salvatore.
Il motivo dell'esultanza per
il cristiano è al di fuori di lui. Perciò il canto del cristiano
diventa davvero un'espressione di estasi, come lo è stato per Maria
in quel momento, quando non ha saputo fare altro che magnificare
Dio. Non ha parlato di sé; c'è quell'inciso: «Tutte le generazioni
mi chiameranno beata», sì, ma nell'insieme del Magnificat
direi quasi che si perde, o meglio viene convogliato nella direzione
logica e tematica di tutto il contesto, che esplode verso il Signore;
è lui il soggetto e l'oggetto nello stesso tempo di tutto ciò che
viene qui cantato da Maria: «L'anima mia magnifica il Signore...
perché ha fatto questo e quest'altro...» e parla solo di Lui. Ecco
che cosa è l'estasi, è il perdersi nell'altro, uscire da sé. Ma
léstasi non è mai possibile senza il canto, cioè senza questa dimensione
di lode, di «magnificenza», nel senso attivo del termine.
Questa dimensione la cogliamo
anche in alcune semplici espressioni del testo: «L'anima mia»; dobbiamo
stare attenti qui a non dare a questo termine «anima» il significato
puramente spiritualistico, che noi saremmo portati ad attribuirgli
in base alla nostra tradizionale formazione platonica, dove l'anima
Si contrappone al corpo; no, nella concezione semitica, l'anima
implica e indica tutto l'essere vivente nella sua globalità, nella
sua totalità, sta quasi per «vita». Pensiamo al testo del Deuteronomio
6,5 (celebre testo, che Gesù ha citato per formulare il primo e
massimo dei comandamenti): «Amerai il Signore Dio tuo, con tutto
il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze». Che
cosa è questa anima? Non è che si debba lodare il Signore con l'anima
e non con il corpo, non c'è qui una contrapposizione antitetica
tra anima e corpo; l'anima implica la vitalità dell'essere. Potremmo
scoprire il significato anche evangelico del termine, in un passo
di Marco 8,35-37, dove Gesù dice: «Chi vorrà salvare la propria
vita la perderà». Così traduce la CEI, ma nell'originale c'è «anima»
( = psiche); letteralmente si sarebbe dovuto tradurre: «chi vorrà
salvare la propria anima la perderà, ma chi perderà la propria anima
per causa mia e del Vangelo la ritroverà; che giova infatti all'uomo
guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima? E che
cosa potrebbe dare mai un uomo in cambio della propria anima?».
Sotto questa «anima» (e non per nulla la CEI traduce «vita») c'è
la totalità dell'essere vivente.
Cosa vuol dire dunque: «L'anima
mia magnifica il Signore»? Significa che io, in tutto quello che
sono, magnifico il Signore, nella mia totalità di essere vivente,
nella mia vita di ogni giorno, nel mio spirito e nel mio corpo,
totalmente. Non c'è nulla che sfugga a questo movimento di estasi,
a questo movimento di lode, a questo movimento di trasporto nel
Signore che è oggetto di celebrazione. Questo deve fare l'uomo redento.
Se non fa questo la sua lode è decurtata, è tagliata, riserva qualcosa
per sé, sottrae qualcosa al Signore, come se il Signore non l'avesse
redento totalmente in radice.
Si potrebbe fare un passo avanti
e leggere nel secondoversetto di questo Magnificat un'altra
allusione: «Il mio spi-rito esulta in Dio, mio Salvatore». Il «mio
spirito». In una prospettiva cristiana, questo spirito non è soltanto
l'elemento spirituale e naturale, in contrapposizioneall'elemento
ma-teriale e naturale della propria identità umana. Leggiamo per
esempio in Romani 8,15 : «Voi non avete ricevuto uno spirito
da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito
da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! Lo
Spirito stesso (cioè lo Spirito Santo) attesta insieme al nostro
spirito che siamo figli di Dio». E che cosa è questo «nostro spirito»?
Leggiamo ancora in I Corinti 2 11-12 «Chi conosce i segreti
dell'uomo, se non lo spirito dell'uomo che è in lui? così neanche
i segreti di Dio nessuno li ha potuti conoscere, se non lo Spirito
di Dio; ora noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo
Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato». Ecco
che cosa potrebbe essere questo «mio Spirito» di cui parla il Magnificat,
quello Spirito di cui Maria stessa è stata piena secondo e parole
dell'angelo: è lo spirito divino condiviso dall'uono, partecipato
all'uomo, lo Spirito Santo, per usare la locuzione comune e classica
con la quale ci intendiamo; lo Spirito Santo in quanto diventa ormai
parte della mia nuova identità, anzi, definisce la mia nuova identità
di battezzato questo «mio spirito» non può rimanere chiuso,
tutti dobbiamo essere «spiritu ferventes», come dice Paolo
ai Romani 2 e come ci ricorda Lutero opportunamente. Nel
canto di ode il nostro spirito battesimale cerca di congiungersi,
di combaciare, di fare un tutt'uno, di fondersi con lo Spirito per
eccellenza, lo Spirito di Dio che ci è stato dato, come scrive Paolo
ai Corinzi, per conoscere i segreti di Dio. E allora questo Spirito
è proprio ciò che forma il comune denominatore tra l'uomo redento
e il Redentore, Gesù Cristo, che dello Spirito di Dio partecipa
e che dello Spirito di Dio diventa a sua volta donatore ai cristiani.
«Il mio Spirito esulta in Dio mio salvatore» scatta una scintilla,
si chiude il circuito e la corente passa.
A parte queste annotazioni,
vorrei richiamare l'attenzione sulla frase che ritengo fondamentale
e che è fondamentale per una rilettura cristiana del Magnificat,
per un pronunciamento cristiano di questo canto come canto dell'uo
o redento. Si tratta del v. 48a: «Perché ha guardato l'umiltà della
sua serva». Ritengo fondamentale questa enunciazione, caratterizzante
la motivazione profonda del canto di Maria e, analogicamente o per
partecipazione, la motivazione profonda del canto del cristiano.
«Ha guardato l'umiltà della sua serva». Potremmo citare, anche qui,
tanto per introdurci, un passo di Lutero nel commento citato, dove
dice: «Gli occhi di Dio guardano solo in basso e non in alto, perché
in alto non ha nessuno da guardare, neppure accanto a sé. Ma se
uno pretende di stare accanto a Dio, Egli non lo vede; ma più uno
è in basso, meglio i suoi occhi lo fissano».
Bellissimo questo concetto,
che corrisponde già alla definizione profetica di Dio, che distoglie
il suo sguardo dai superbi e guarda gli umili e li innalza (Cf
Salmo 138,6; Isaia 57,15)
In questa frase: «Ha guardato
l'umiltà della sua serva», mi pare che si può vedere una sintesi
di tutta la storia dellasalvezza. Anche a motivo di questa frase,
il Magnificat puòdiventare in bocca a un cristiano il compendio
di una lode che riguarda tutto l'operato storico-salvifico di Dio.
Vorrei cogliere questo operato secondo le due grandi tappe, i due
grandi momenti che formano appunto l'Antico e il NuovoTestamento.
Citiamo due testi dell'AT. Uno è Esodo cap.3,7-10; è la scena della
vocazione di Mosè al roveto ardente:«Il Signore disse: ho osservato
(si noti il verbo guardare) la miseria del mio popolo e ho udito
il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue
sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto, e per
farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso; ora
dunque ilgrido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso
ho visto l'oppressione con cui gli egiziani li tormentano».
Ecco, Dio ha visto la povertà del suo popolo, l'umiliazione, l'oppressione
del suo popolo: un popolo schiacciato, un popolo che davvero era
in basso, era umile, di una umiltà se non altro a livello politico-sociale-materiale,
e che al di fuori di questa sua situazione di povertà non aveva
titoli per pretendere un intervento divino, Ma automaticamente questo
«vedere» da parte del Signore Jahwé diventa decisione d'intervento
in favore suo.
L'altro testo è Deuteronomio
7,7-8, che si colloca nella stessa linea: «Il Signore si è legato
a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi degli altri
popoli; siete infatti il più piccolo di tutti i popoli; ma perché
il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto
ai vostri Padri». Anche qui c'è concordanza con il testo del Magnificat:
«Ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso
ai nostri Padri». Ecco la motivazione per cui Dio ha scelto il suo
popolo: Dio sceglie il suo popolo, non perché siete più numerosi,
ma perché il Signore vi ama, siete il più piccolo di tutti i popoli.
Ecco, questi due testi colgono il costituirsi del popolo dell'Antica
Alleanza nel suo farsi, nel suo formarsi, cioè nel momento dell'esodo
dall'Egitto, che è il momento fondante, il momento qualificante
non solo del popolo, ma del Dio stesso di questo popolo. Che cosa
ha fatto il Dio di Israele? Ha «guardato l'umiltà» del suo servo,
di Israele. Nel Magnificat, versetto 54, leggiamo: «Ha soccorso
Israele, suo servo». E qui la traduzione della CEI ripete lo stesso
termine «servo» come nel v.A8, c'era «serva», in realtà, qui ci
sarebbe, il termine greco pais che potrebbe significare «figlio»,
mentre il greco là usa il termine dulè che significa «serva».
Si noti come il titolo «figlio» in questo caso viene dato a Israele,
non a Gesù Cristo (vedi la tematica precedente dell'assenza di temi
specificamente cristiani). Voglio dire che con questa frase di Maria,
e con una pennellata sola, si fa rivivere tutto il colore del popolo
dell'AT, tutto il colore soprattutto del «suo Dio», un Dio che guarda
gli umili e che se la ride dei superbi.
Veniamo piuttosto alla tappa
nuova dell''omo redento quella del cristiano. Qui citiamo anche
due testi. Uno è quello della lettera ai Romani 5,6-8: «Infatti,
mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel
tempo stabilito; ora, a stento si trova chi è disposto a morire
per un giusto, forse ci può essere chi ha il coraggio di morire
per una persona dabbene, ma Dio dimostra il suo amore verso di noi
perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».
Questa terminologia di «peccatori»
(in realtà, al v. 6 ci dovrebbe essere «deboli», ma la CEI traduce
«peccatori») è analogica e parallela a quella del Magnificat.
Si tratta di una umiltà su un piano diverso. È sempre lo stesso
Dio che non guarda i belli; è il Dio cristiano che guarda i deboli,
guarda gli empi, guarda i peccatori; guarda i brutti, se mi si permette
l'espressione, i quali diventano belli e raggianti proprio perché
Dio li guarda e i loro occhi si incontrano (cfr Sal 34,ó). Vedi
il testo parallelo della prima lettera di Giovanni 4,10: «In questo
sta l'amore, non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato
noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i
nostri peccati». Quando un cristiano recita, proclama questa frase
del Magnificat, «Perché ha guardato l'umiltà della sua serva»,
come può non pensare, non rileggere questa frase alla luce di fatti
pasquali?
Non è più possibile fermarsi
ad una semplice situazione pre-pasquale, quando ancora tutto doveva
compiersi, perché allora si opera una sfasatura e il canto non è
più espressione della mia situazione. Ma se il canto voglio farlo
mio, e non soltanto ripetere un pezzo da museo, allora devo riempirlo
dei contenuti di cui Paolo e Giovanni mi parlano, di cui mi parla
la comunità cristiana primitiva nel suo insieme, di cui mi parla
la storia della Chiesa, di cui mi parla l'identità cristiana; l'essere
cristiano in se stesso è agganciato indissolubilmente ai fatti pasquali,
la morte e la resurrezione di Gesù, il che vuol dire ad una donazione
di sé che Gesù ha fatto per i miei peccati, «Mentre ancora eravamo
peccatori Egli è morto per noi», «ha guardato l'umiltà
della sua serva», dei suoi servi, di coloro che erano totalmente
indegni e non avevano titoli da accampare di fronte a lui per dirgli
«salvami», al di fuori della loro stessa necessità. Questo
è l'uomo redento, che per logica di cose, per logica storico-salvifica,
non può non riempire questa frase dei contenuti pasquali.
È una motivazione dunque che
resta fondamentale: «Ha guardato l'umiltà della sua serva». Si potrebbe
ricavare una seconda componente di rilettura dal Magnificat,
alla quale accenniamo soltanto: una componente di carattere politico-sociale.
C'è più di un versetto in questo testo, in cui si dice: «Ha spiegato
la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi, ha rovesciato
i potenti, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi». Ecco cosa deve pure fare
il cristiano. Effettivamente queste frasi poste sulla bocca di Maria
hanno avuto una loro verifica e una loro attualizzazione già nel
ministero di Gesù: sia la sua attività che il suo insegnamento sono
stati su questa linea, almeno in parte e in gran parte. Pensiamo
ai vari interventi operati da Gesù in favore dei bisognosi; pensiamo
alla moltiplicazione dei pani, per prendere una pagina paradigmatica;
si può anche citare Matteo 25: «Quando avrete dato da mangiare agli
affamati, da bere agli assetati, ecc...»;pensiamo alla parabola
del ricco Epulone e del povero Lazzaro. Dunque, c'è un'attività
e c'è anche un insegnamento di Gesù che sono in linea con questo
testo: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote
i ricchi,». Tale è anche la dimensione che deve caratterizzare il
cristiano; il cristiano non è uno che vive la propria fede col paraocchi
isolato a tu per tu col Signore, come se tutto il resto fosse condannato
alla perdizione e dovesse essere abbandonato a se stesso. Il Dio
biblico, che è il Dio di Maria, stimola il cristiano a un impegno
di questo genere.
Ma dobbiamo puntualizzare bene
le cose. Non per nulla il Magnificat comincia a dire che
Dio ha guardato l'umiltà della sua serva. Il cristiano non ha la
radice della propria identità nell'impegno sociale; questo mi pare
di doverlo dire con estrema chiarezza. La radice dell'identità cristiana
è nella misericordia di Dio, è nella grazia di Dio, è in Colui che
«ha guardato», è in quello sguardo, nello sguardo di un Dio che
posa i suoi occhi sulla bassezza, sulla pochezza, sulla peccaminosità
anche, degli uomini. Lì è la radice, perché tutto comincia di lì,
il rinnovamento viene di lì. Questa radice è chiamata a crescere,
è chiamata a produrre dei frutti; e questi frutti si misurano anche
nell'impegno di cui Maria qui parla; anch'essi costituiscono l'identità
cristiana, ma per derivazione da ciò che li fonda.
A questo punto termino con
una semplicissima annotazione. Il canto del Magnificat viene
posto da Luca sulla bocca di Maria, quando ancora tutto deve compiersi.
Qui abbiamo già una donna che, prima ancora che si verifichi la
nascita del Figlio, prima ancora che sappia come si svolgeranno
i giochi, già magnifica il Signore. Anche questa dev 'essere una
caratteristica dell'uomo redento, che all'inizio delle sue cose
già è disposto al canto, perché già è sicuro che dopo l'aurora viene
il sole splendente. Per questo la fiducia è una componente fondamentale
del cristiano, come lo è stato per Maria in quell'occasione.
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