di Romano Penna

     Il Magnificat, così come sta nel terzo vangelo, di per sé non è un canto dell'uomo redento e nemmeno della Chiesa redenta, perché Gesù doveva ancora nascere, doveva ancora morire, risorgere, e la Chiesa non c'era ancora. Voglio dire che a livello redazionale il testo di Luca, così come si presenta a noi, ci dà un inno che non è dell'uomo o della Chiesa ma un inno che è di Maria, posto chiaramente in bocca a lei. È un canto di lode e di ringraziamento, che Maria pronuncia, proclama, in un determinato momento della sua esistenza terrena.
       Qui ci si può chiedere: è forse possibile, nonostante ciò, una «espropriazione» del canto del Magnificat e un suo passaggio dalla bocca di Maria alla bocca dell'uomo redento, del cristiano, del battezzato, cioè dell'uomo ecclesiale? Proprio questo dovremo tentare: operare un passaggio dal momento in cui Maria ha pronunciato queste parole al momento m cui Luca le ha scritte e il suo lettore (ciascuno di noi) le pronuncia, ripetendole.
       Ebbene, vorrei dire che una espropriazione è possibile (e credo che abbiate compreso ciò che intendo con ciò). È possibile, perché? È possibile anche soltanto sulla base di una semplice constatazione della tematica del canto, nel momento m cui esso viene pronunciato da Maria, secondo la redazione di Luca. Voglio dire questo: secondo Luca, Maria in questo momento è passata da Nazaret alle montagne della Giudea per fare visita alla parente Elisabetta; siamo dunque in un momento ben preciso, puntuale, della vita della Vergine, e appunto in questa occasione ella pronuncia questo canto. Però l'ossenazione importante da fare è questa: apparentemente non c'è nessun addentellato fra i contenuti di questo canto e l'esperienza straordinaria che Maria deve aver vissuto, secondo Luca, non solo in quel preciso momento con Elisabetta, quando questa la proclama beata fra le donne, ma anche già in precedenza, quando c'è stato il momento dell'annunciazione. Tant'è che a livello critico, a livello di studi sul testo originale di questa pagina lucana, alcuni pensano che sia stato possibile addirittura che il Magnificat sia stato pronunciato, non da Maria, ma da altri; per esempio, da Elisabetta. Questo è testimoniato in alcune varianti manoscritte antiche secondo alcuni codici latini; in questo caso, in Lc 1,46 invece di «allora Maria disse» si dovrebbe leggere: «Allora Elisabetta disse» cioè, disse appunto questo canto. Io qui suppongo molte cose, come il fatto che esso è strettissimamente parallelo con il canto di Anna nel primo libro di Samuele, cap. 2: la sterile Anna, dopo aver invocato la nascita di un figlio (che sarebbe stato Samuele) lo ha ottenuto dal Signore e allora esce in un canto, che anticipa molto da vicino il Magnificat. Perciò, il caso di Elisabetta sarebbe molto più parallelo con il caso di Anna che non il caso di Maria. Elisabetta, sterile, ha avuto un figlio come la sterile Anna lo ha avuto. Ecco perché alcune antiche varianti, ripeto, invece di «Maria» hanno letto «Elisabetta». Bisogna dire, per la verità, che questo tipo di variante non è accettabile a livello di critica testuale perché si tratta di attestazioni molto scarse e molto tardive, quindi non sufficientemente solide per imporsi come lezione originale del testo lucano. Ma è interessante sapere che alcuni hanno visto meglio il canto del Magnificat sulla bocca di Elisabetta che su quella di Maria.
       Un'altra posizione, molto più comune tra gli studiosi, è che in quel preciso momento della sua vita, Maria sul piano storico sia uscita soltanto in qualche esclamazione di lode e di glorificazione di Dio, in forma molto più contenuta dell'attuale testo lucano. Effettivamente, l'introduzione che suona: «Allora Maria disse», stona assai con l'introduzione molto più solenne che Luca scrive per introdurre il canto di Zaccaria, in 1,67: «Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetò dicendo»; come si vede, l'introduzione è ampia e solenne, e apre appunto l'inno del Benedictus, pronunciato da Zaccaria. Invece per Maria semplicemente si scrive: «Allora Maria disse», come se si fosse espressa soltanto con una dichiarazione molto breve. L'ipotesi che viene fatta, dunque, è che Maria abbia pronunciato una qualche dossologia una frase di lode, e che poi invece, a livello della tradizione orale della vita giudeo-cristiana primitiva, il canto sia stato ampliato e sia poi finito, in questa stesura gonfiata, nella redazione che Luca ci dà di questa pagina.
       Effettivamente sorprende sempre il fatto, a cui abbiamo già accennato, che Maria, dopo l'annunciazione di unfatto tanto straordinario e sconvolgente (non sono cose di tutti i giorni che a una donna si venga a dire: «Tu sarai madre vergine di un bambino che è il Figlio di Dio») non faccia diesso la minima parola nel Magnificat; infatti non c'è nessun riferimento concreto a quella esperienza, che è una chiama-ta e una missione senza paragone. Invece, nel Benedictus di Zaccaria c'è qualche aggancio più concreto a quello che è statoil suo destino, cioè di essere padre di Giovanni Battista, in- fatti si menziona esplicitamente il «bambino».
       Ecco dunque l'ipotesi: in bocca a Maria viene messo un canto di lode, che la comunità cristiana ( = giudeo-cristiana) già pronunciava nelle sue assemblee liturgiche.
       Difatti, il testo così come suona potrebbe essere considerato benissimo come canto ebraico; non vi è nulla di specificamente cristiano, non vi è nessun accenno a Gesù, c'è semplicemente l'accenno a Dio che si è ricordato della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri Padri, ad Abramo e alla sua discendenza.
       Queste sono le ipotesi che vengono formulate. La seconda in particolare è largamente condivisa, almeno per quanto riguarda la seconda metà del Magnificat, cioè dal v. 51 in poi.
       Ma lasciamo da parte questo problema, e chiediamoci a questo punto: un canto del genere può essere anche espressione della fede cristiana? Può essere espressione della comunità post-pasquale, della comunità del Risorto, la comunità di coloro che hanno instaurato con Gesù crocifisso e risuscitato un particolarissimo rapporto come tra salvati e Salvatore? Si potrebbe fare, per esempio, un confronto fra il nostro testo lucano e un altro inno della comunità cristiana primitiva, che troviamo in apertura della lettera agli Efesini ( 1, 3-14). È un altro canto della chiesa primitiva, atipicamente messo all'inizio di una lettera, che però ha delle motivazioni cristiane molto evidenti: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo... A lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel Figlio diletto, nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati... il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose...». Li c'è davvero un piccolo schema di catechismo cristiano, che si fa lode, si fa benedizione di Dio. È una fede che esulta, una fede che trabocca, in qualche modo ritorna all'autore dei prodigi salvifici sotto forma di esultanza e di glorificazione. Ma, ripeto, là il contenuto è veramente più cristiano, ci sono delle espressioni esplicite di fede cristiana.
       Ebbene, nonostante tutto, anche il Magnificat è stato conservato da Luca, ed è stato certamente utilizzato dai primi cristiani come noi lo utilizziamo ancora oggi. D'altronde, esso fa parte di quei pochi canti che si trovano sparsi nel NT. Due sono nei primi capitoli di Luca, un altro è il prologo del Vangelo di Giovanni, I'inno al Logos, un altro è questo dell'inizio alla lettera agli Efesini, altri sono sparsi qua e là, anche se più brevi, come nell'Apocalisse. Risulta in qualche modo sempre un testo del NT, un testo in cui la comunità cristiana si riconosce. Allora, in che modo la comunità cristiana può fare suo questo canto, può rileggerlo, in che modo questo canto può diventare il canto dell'uomo redento, il canto del cristiano?
       Innanzitutto lo può diventare semplicemente in quanto canto, in quanto inno di lode, e inno di lode sobrio, tutto sommato anche generale, starei per dire generico, senza riferimenti concreti agli eventi cristiani tipici. Proprio per questo può adattarsi. È sobrio, semplice, ma è un canto in cui la fede si riversa in espressioni di giubilo, e non si trasforma soltanto in confessione o espressione didattica, ma diventa esultanza dello spirito.
       Vorrei qui citare un testo di Lutero nel suo «Commento al Magnificat»; siamo nell'anno centenario della nascita di Lutero e dobbiamo in qualche modo anche noi rendergli omaggio. Nel suo bellissimo commento al Magnificat, eglitra l'altro dice: «Queste poche parole dello Spirito sono sempre così grandi e profonde che nessuno le può comprendere senon chi senta almeno in parte lo stesso Spirito. Per coloroche non hanno questo Spirito, questi parole sono di nessun rilievo e del tutto senza gusto... Così insegna anche Cristo in Matteo 6,7: che non dobbiamo dire molte parole quandopreghiamo, perché così fanno gli infedeli che credono di essere esauditi per le molte parole. Parimenti anche ora in tut-te le chiese si fa un gran rumore con musiche,canti,grida,letture, ma io temo che ben poca è la lode di Dio, volendo egli essere lodato in spirito e verità». Davvero non sembranoparole di quattrocento anni fa!
       E continua: «La situazione è ben diversa se uno medita sulle azioni divine di tutto cuore e le considera con ammirazione e gratitudine; egli trabocca d'amore e sospira più che parlare e le parole sgorgano da sole senza essere né pensate, né studiate, si che lo Spirito stesso si manifesta e le parole hanno vita. Ciò significa lodare veramente Dio in spirito e verità, essendo le parole fuoco, luce e vita, come dice Davide nel Salmo 119: 'Signore, il parlare di te è tutto infuocato', e ancora: 'Le mie labbra erompono in tua lode'. Come l'acqua calda bollendo trabocca e spuma perché non si può più trattenere nella pentola per il gran calore, di tal genere sono pure tutte le parole della beata Vergine in questo canto. Poche, e pure profonde e grandi. S. Paolo (Romani 12), chiama tali persone Spiritu ferventes, gli «spiritualmente bol-lenti e spumanti» e c'insegna ad essere cosi». Vedete com'ebella questa pagina di Lutero! Coglie una dimensione pri-maria, semplice, fondamentale del canto del Magnificat, che sgorga da uno spirito fervente, che trabocca, come (paragone molto familiare, domestico direi) la pentola che non riesce più a trattenere tutti i vapori dentro di sé.
       Questa dimensione di traboccamento è sempre qualcosa che deve caratterizzare l'uomo redento, perché è stato ripieno dell'amore di Dio (cf Rom 5,5), è stato il destinatario di una grazia, di un intervento salvifico che lo tocca alle racdici.
       Sarebbe anche interessante vedere l'uso del verbo «magnificare», verbo raro nel NT. Esso viene usato in Atti 10,46 a proposito del Battesimo dei primi pagani da parte di Pietro, quando i fedeli circoncisi che erano venuti con Pietro si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo: «Sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio»; cosi traduce la CEI, ma il verbo è lo stesso e si dovrebbe quindi tradurre: «magnificare Dio».
       Questi primi battezzati che venivano dal paganesimo hanno magnificato Dio, cosi come Maria in quel momento lo ha magnificato.
       Lo stesso verbo viene usato da Paolo in Filippesi 1,20 a proposito di una situazione diversa; Paolo è in carcere e sta pensando alla propria sorte, che può essere di liberazione o di condanna, e dice: «In ogni caso Cristo sarà magnificato nel mio corpo». Qui si vede come l'Apostolo sa di essere totalmente a servizio della lode di Dio, anche a livello esistenziale, sia con la vita che con la morte.
       Magnificare il Signore presuppone di sapere dunque che c'è sempre lui sopra di noi, sempre lui più. grande di noi. E il redento in quanto tale sa magnificarlo con un canto nuovo.       Nell'Apocalisse di Giovanni, al cap. 14,3 si parla dei .santi, i «segnati», gli eletti, che cantano davanti al trono un canto nuovo, il canto della redenzione, il canto di una glorificazione, di una lode, per rendere «magnificenza» a Colui che sta all'origine di tutta la novità cristiana.
       Pensiamo anche ai testi di Colossesi 3,16 (che è parallelo a Efesini 5,19), dove l'apostolo invita i destinatari a lodare Dio, a inneggiare a lui cantando inni e canti spirituali, cantando nel proprio cuore.
       La dimensione del canto deve caratterizzare il cristiano, se no che testimonianza rende? La redenzione che ha toccato il cristiano deve esprimersi in questa dimensione di esultanza, che poi non è l'esultanza neutra, quella dell'allegrone, dello spens erato, ma è l'esultanza di chi sa da dove proviene la sua nuova identità ed esulta in Dio, suo Salvatore.
       Il motivo dell'esultanza per il cristiano è al di fuori di lui. Perciò il canto del cristiano diventa davvero un'espressione di estasi, come lo è stato per Maria in quel momento, quando non ha saputo fare altro che magnificare Dio. Non ha parlato di sé; c'è quell'inciso: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata», sì, ma nell'insieme del Magnificat direi quasi che si perde, o meglio viene convogliato nella direzione logica e tematica di tutto il contesto, che esplode verso il Signore; è lui il soggetto e l'oggetto nello stesso tempo di tutto ciò che viene qui cantato da Maria: «L'anima mia magnifica il Signore... perché ha fatto questo e quest'altro...» e parla solo di Lui. Ecco che cosa è l'estasi, è il perdersi nell'altro, uscire da sé. Ma léstasi non è mai possibile senza il canto, cioè senza questa dimensione di lode, di «magnificenza», nel senso attivo del termine.
       Questa dimensione la cogliamo anche in alcune semplici espressioni del testo: «L'anima mia»; dobbiamo stare attenti qui a non dare a questo termine «anima» il significato puramente spiritualistico, che noi saremmo portati ad attribuirgli in base alla nostra tradizionale formazione platonica, dove l'anima Si contrappone al corpo; no, nella concezione semitica, l'anima implica e indica tutto l'essere vivente nella sua globalità, nella sua totalità, sta quasi per «vita». Pensiamo al testo del Deuteronomio 6,5 (celebre testo, che Gesù ha citato per formulare il primo e massimo dei comandamenti): «Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze». Che cosa è questa anima? Non è che si debba lodare il Signore con l'anima e non con il corpo, non c'è qui una contrapposizione antitetica tra anima e corpo; l'anima implica la vitalità dell'essere. Potremmo scoprire il significato anche evangelico del termine, in un passo di Marco 8,35-37, dove Gesù dice: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà». Così traduce la CEI, ma nell'originale c'è «anima» ( = psiche); letteralmente si sarebbe dovuto tradurre: «chi vorrà salvare la propria anima la perderà, ma chi perderà la propria anima per causa mia e del Vangelo la ritroverà; che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe dare mai un uomo in cambio della propria anima?». Sotto questa «anima» (e non per nulla la CEI traduce «vita») c'è la totalità dell'essere vivente.
       Cosa vuol dire dunque: «L'anima mia magnifica il Signore»? Significa che io, in tutto quello che sono, magnifico il Signore, nella mia totalità di essere vivente, nella mia vita di ogni giorno, nel mio spirito e nel mio corpo, totalmente. Non c'è nulla che sfugga a questo movimento di estasi, a questo movimento di lode, a questo movimento di trasporto nel Signore che è oggetto di celebrazione. Questo deve fare l'uomo redento. Se non fa questo la sua lode è decurtata, è tagliata, riserva qualcosa per sé, sottrae qualcosa al Signore, come se il Signore non l'avesse redento totalmente in radice.
       Si potrebbe fare un passo avanti e leggere nel secondoversetto di questo Magnificat un'altra allusione: «Il mio spi-rito esulta in Dio, mio Salvatore». Il «mio spirito». In una prospettiva cristiana, questo spirito non è soltanto l'elemento spirituale e naturale, in contrapposizioneall'elemento ma-teriale e naturale della propria identità umana. Leggiamo per esempio in Romani 8,15 : «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! Lo Spirito stesso (cioè lo Spirito Santo) attesta insieme al nostro spirito che siamo figli di Dio». E che cosa è questo «nostro spirito»? Leggiamo ancora in I Corinti 2 11-12 «Chi conosce i segreti dell'uomo, se non lo spirito dell'uomo che è in lui? così neanche i segreti di Dio nessuno li ha potuti conoscere, se non lo Spirito di Dio; ora noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato». Ecco che cosa potrebbe essere questo «mio Spirito» di cui parla il Magnificat, quello Spirito di cui Maria stessa è stata piena secondo e parole dell'angelo: è lo spirito divino condiviso dall'uono, partecipato all'uomo, lo Spirito Santo, per usare la locuzione comune e classica con la quale ci intendiamo; lo Spirito Santo in quanto diventa ormai parte della mia nuova identità, anzi, definisce la mia nuova identità di battezzato questo «mio spirito» non può rimanere chiuso, tutti dobbiamo essere «spiritu ferventes», come dice Paolo ai Romani 2 e come ci ricorda Lutero opportunamente. Nel canto di ode il nostro spirito battesimale cerca di congiungersi, di combaciare, di fare un tutt'uno, di fondersi con lo Spirito per eccellenza, lo Spirito di Dio che ci è stato dato, come scrive Paolo ai Corinzi, per conoscere i segreti di Dio. E allora questo Spirito è proprio ciò che forma il comune denominatore tra l'uomo redento e il Redentore, Gesù Cristo, che dello Spirito di Dio partecipa e che dello Spirito di Dio diventa a sua volta donatore ai cristiani. «Il mio Spirito esulta in Dio mio salvatore» scatta una scintilla, si chiude il circuito e la corente passa.
       A parte queste annotazioni, vorrei richiamare l'attenzione sulla frase che ritengo fondamentale e che è fondamentale per una rilettura cristiana del Magnificat, per un pronunciamento cristiano di questo canto come canto dell'uo o redento. Si tratta del v. 48a: «Perché ha guardato l'umiltà della sua serva». Ritengo fondamentale questa enunciazione, caratterizzante la motivazione profonda del canto di Maria e, analogicamente o per partecipazione, la motivazione profonda del canto del cristiano. «Ha guardato l'umiltà della sua serva». Potremmo citare, anche qui, tanto per introdurci, un passo di Lutero nel commento citato, dove dice: «Gli occhi di Dio guardano solo in basso e non in alto, perché in alto non ha nessuno da guardare, neppure accanto a sé. Ma se uno pretende di stare accanto a Dio, Egli non lo vede; ma più uno è in basso, meglio i suoi occhi lo fissano».
       Bellissimo questo concetto, che corrisponde già alla definizione profetica di Dio, che distoglie il suo sguardo dai superbi e guarda gli umili e li innalza (Cf Salmo 138,6; Isaia 57,15)
       In questa frase: «Ha guardato l'umiltà della sua serva», mi pare che si può vedere una sintesi di tutta la storia dellasalvezza. Anche a motivo di questa frase, il Magnificat puòdiventare in bocca a un cristiano il compendio di una lode che riguarda tutto l'operato storico-salvifico di Dio. Vorrei cogliere questo operato secondo le due grandi tappe, i due grandi momenti che formano appunto l'Antico e il NuovoTestamento. Citiamo due testi dell'AT. Uno è Esodo cap.3,7-10; è la scena della vocazione di Mosè al roveto ardente:«Il Signore disse: ho osservato (si noti il verbo guardare) la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto, e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso; ora dunque ilgrido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l'oppressione con cui gli egiziani li tormentano». Ecco, Dio ha visto la povertà del suo popolo, l'umiliazione, l'oppressione del suo popolo: un popolo schiacciato, un popolo che davvero era in basso, era umile, di una umiltà se non altro a livello politico-sociale-materiale, e che al di fuori di questa sua situazione di povertà non aveva titoli per pretendere un intervento divino, Ma automaticamente questo «vedere» da parte del Signore Jahwé diventa decisione d'intervento in favore suo.
       L'altro testo è Deuteronomio 7,7-8, che si colloca nella stessa linea: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi degli altri popoli; siete infatti il più piccolo di tutti i popoli; ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri Padri». Anche qui c'è concordanza con il testo del Magnificat: «Ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri Padri». Ecco la motivazione per cui Dio ha scelto il suo popolo: Dio sceglie il suo popolo, non perché siete più numerosi, ma perché il Signore vi ama, siete il più piccolo di tutti i popoli. Ecco, questi due testi colgono il costituirsi del popolo dell'Antica Alleanza nel suo farsi, nel suo formarsi, cioè nel momento dell'esodo dall'Egitto, che è il momento fondante, il momento qualificante non solo del popolo, ma del Dio stesso di questo popolo. Che cosa ha fatto il Dio di Israele? Ha «guardato l'umiltà» del suo servo, di Israele. Nel Magnificat, versetto 54, leggiamo: «Ha soccorso Israele, suo servo». E qui la traduzione della CEI ripete lo stesso termine «servo» come nel v.A8, c'era «serva», in realtà, qui ci sarebbe, il termine greco pais che potrebbe significare «figlio», mentre il greco là usa il termine dulè che significa «serva». Si noti come il titolo «figlio» in questo caso viene dato a Israele, non a Gesù Cristo (vedi la tematica precedente dell'assenza di temi specificamente cristiani). Voglio dire che con questa frase di Maria, e con una pennellata sola, si fa rivivere tutto il colore del popolo dell'AT, tutto il colore soprattutto del «suo Dio», un Dio che guarda gli umili e che se la ride dei superbi.
       Veniamo piuttosto alla tappa nuova dell''omo redento quella del cristiano. Qui citiamo anche due testi. Uno è quello della lettera ai Romani 5,6-8: «Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito; ora, a stento si trova chi è disposto a morire per un giusto, forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene, ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».
       Questa terminologia di «peccatori» (in realtà, al v. 6 ci dovrebbe essere «deboli», ma la CEI traduce «peccatori») è analogica e parallela a quella del Magnificat. Si tratta di una umiltà su un piano diverso. È sempre lo stesso Dio che non guarda i belli; è il Dio cristiano che guarda i deboli, guarda gli empi, guarda i peccatori; guarda i brutti, se mi si permette l'espressione, i quali diventano belli e raggianti proprio perché Dio li guarda e i loro occhi si incontrano (cfr Sal 34,ó). Vedi il testo parallelo della prima lettera di Giovanni 4,10: «In questo sta l'amore, non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati». Quando un cristiano recita, proclama questa frase del Magnificat, «Perché ha guardato l'umiltà della sua serva», come può non pensare, non rileggere questa frase alla luce di fatti pasquali?
       Non è più possibile fermarsi ad una semplice situazione pre-pasquale, quando ancora tutto doveva compiersi, perché allora si opera una sfasatura e il canto non è più espressione della mia situazione. Ma se il canto voglio farlo mio, e non soltanto ripetere un pezzo da museo, allora devo riempirlo dei contenuti di cui Paolo e Giovanni mi parlano, di cui mi parla la comunità cristiana primitiva nel suo insieme, di cui mi parla la storia della Chiesa, di cui mi parla l'identità cristiana; l'essere cristiano in se stesso è agganciato indissolubilmente ai fatti pasquali, la morte e la resurrezione di Gesù, il che vuol dire ad una donazione di sé che Gesù ha fatto per i miei peccati, «Mentre ancora eravamo peccatori Egli è morto per noi», «ha guardato l'umiltà della sua serva», dei suoi servi, di coloro che erano totalmente indegni e non avevano titoli da accampare di fronte a lui per dirgli «salvami», al di fuori della loro stessa necessità. Questo è l'uomo redento, che per logica di cose, per logica storico-salvifica, non può non riempire questa frase dei contenuti pasquali.
       È una motivazione dunque che resta fondamentale: «Ha guardato l'umiltà della sua serva». Si potrebbe ricavare una seconda componente di rilettura dal Magnificat, alla quale accenniamo soltanto: una componente di carattere politico-sociale. C'è più di un versetto in questo testo, in cui si dice: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi, ha rovesciato i potenti, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi». Ecco cosa deve pure fare il cristiano. Effettivamente queste frasi poste sulla bocca di Maria hanno avuto una loro verifica e una loro attualizzazione già nel ministero di Gesù: sia la sua attività che il suo insegnamento sono stati su questa linea, almeno in parte e in gran parte. Pensiamo ai vari interventi operati da Gesù in favore dei bisognosi; pensiamo alla moltiplicazione dei pani, per prendere una pagina paradigmatica; si può anche citare Matteo 25: «Quando avrete dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, ecc...»;pensiamo alla parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro. Dunque, c'è un'attività e c'è anche un insegnamento di Gesù che sono in linea con questo testo: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi,». Tale è anche la dimensione che deve caratterizzare il cristiano; il cristiano non è uno che vive la propria fede col paraocchi isolato a tu per tu col Signore, come se tutto il resto fosse condannato alla perdizione e dovesse essere abbandonato a se stesso. Il Dio biblico, che è il Dio di Maria, stimola il cristiano a un impegno di questo genere.
       Ma dobbiamo puntualizzare bene le cose. Non per nulla il Magnificat comincia a dire che Dio ha guardato l'umiltà della sua serva. Il cristiano non ha la radice della propria identità nell'impegno sociale; questo mi pare di doverlo dire con estrema chiarezza. La radice dell'identità cristiana è nella misericordia di Dio, è nella grazia di Dio, è in Colui che «ha guardato», è in quello sguardo, nello sguardo di un Dio che posa i suoi occhi sulla bassezza, sulla pochezza, sulla peccaminosità anche, degli uomini. Lì è la radice, perché tutto comincia di lì, il rinnovamento viene di lì. Questa radice è chiamata a crescere, è chiamata a produrre dei frutti; e questi frutti si misurano anche nell'impegno di cui Maria qui parla; anch'essi costituiscono l'identità cristiana, ma per derivazione da ciò che li fonda.
       A questo punto termino con una semplicissima annotazione. Il canto del Magnificat viene posto da Luca sulla bocca di Maria, quando ancora tutto deve compiersi. Qui abbiamo già una donna che, prima ancora che si verifichi la nascita del Figlio, prima ancora che sappia come si svolgeranno i giochi, già magnifica il Signore. Anche questa dev 'essere una caratteristica dell'uomo redento, che all'inizio delle sue cose già è disposto al canto, perché già è sicuro che dopo l'aurora viene il sole splendente. Per questo la fiducia è una componente fondamentale del cristiano, come lo è stato per Maria in quell'occasione.


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