di Sergio Trasatti

      È scritto nel decreto conciliare Inter Mirifica, di cui nel 1983 celebreremo il dccimo anniversario, che la Chiesa segue con particolare cura, tra le meravigliose invenzioni tecniche, gli strumenti di comunicazione sociale, poiché «direttamente riguardano lo spirito dell'uomo e offrono nuove e rapidissime maniere di comunicare notizie, idee e inscgnarnenti»1. Tali strumenti difatti, sempre secondo il decreto conciliare, possono rnirabilmente servire, se bene adoperati, a «sollevare e arricchire io spirito, nonché a propagare e rafforzare il Regno di Dio»2 Nell'esortazione finale, poi, 1'Inter Mirifica auspica che, «come già avvenne per i capolavori delle arti classiche, arche con queste recenti invenzioni venga glorificato il Nome del Signore, secondo il detto dell'apostolo Paolo: Gesù Cristo ieri, oggi e per tutti i secoli (Eb 13,8)»3
       Ho voluto, ricordare questi concetti non per versare amare lacrime su quello che i mass media avrebbero, potuto essere, e ancora non sono, ma semplicemente per inquadrare in una prospettiva logica qualche appunto sugli strumenti di comunicazione sociale come «via» per la conoscenza di Maria. Si tratta di una materia complessa, ostica, che sarebbe ingiusto e sbagliato affrontare in una prospettiva pessimistica, ma che richiede uno sforzo singolare di analisi per adombrare qualche sintesi soddisfacente. I mass media sono meravigliosi, come dice il Concilio, ma ci aiutano a crescere dal punto di vista sociale, culturale e spirituale soltanto se operano in tal senso i comunicatori, cioè gli uomini che spingono i bottoni. E questi uomini della stanza dei bottoni sono a loro volta il prodotto della società che abbiamo inventato, della cultura che abbiamo prodotto, della spiritualità che siamo stati in grado di far circolare tra gli esseri umani e nelle comunità. D'altro canto, come ha ben insegnato pur tra qualche incomprensione Marshall McLuhan, il mezzo è il messaggio, cioè la comunicazione sociale non è soltanto la somma di alcuni strumenti. Fa parte integrante della nostra vita e non è un corpo separato. Cresce o decresce con noi, con le nostre inquietudini, con le nostre speranze, con le nostre angosce di cittadini di un mondo impaurito davanti all'imminente Duemila. È detto nella prima Enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor Hominis, che il cammino della Chiesa è il cammino dell'uomo. Ebbene, è semplicistico ritenere che sul cammino dell'uomo «incidano» in qualche modo i mass media, oppure che i mass media accompagnino l'uomo in maniera descrittiva, facendosi semplicemente interpreti, di volta in volta, dei suoi desideri, delle sue tensioni, dei suoi turbamenti, magari dei suoi silenzi esistenziali. In realtà gli strumenti della comunicazione sociale sono oggi sempre più nettamente componenti essenziali e vive del cammino dell'uomo. Il mondo dei mass media, in cui siamo immersi quotidianamente, è in quanto tale un mondo diverso da quello precedente l'avvento delle «meravigliose invenzioni». La nostra realtà è questa, al di là di ogni semplificazione concettuale di comodo, e con questa dobbiamo fare i conti.
       Ecco perché la materia impone uno sforzo di globalità senza il quale si rischia di restare non solo fuori della porta della comunicazione, ma fuori della porta del presente e del futuro. I mass media non sono né compensazione evasiva né catarsi artistico-intellettuale. Sono parte di noi e del nostro ambiente antropologico; sono la culla in cui si colloca il nostro vissuto.
       Tutto ciò va tenuto presente come sfondo per una ricerca concreta sulle possibilità contingenti dei mass media di essere «via» per la conoscenza di Maria, e perciò per la conoscenza di quanto Maria rappresenta per la nostra vita reale nel mondo e nella Chiesa. Bisogna cioè evitare che la parola «via» venga usata in senso disgiuntivo, come momento di contatto di ciò che precedentemente è separato. I mass media sono dentro la nostra vita e la nostra vita si snoda dentro i mass media. E il mistero mariano vivifica dall'interno, a dispetto di ogni considerazione occasionale o superficiale, sia l'una che gli altri.
       Con questa premessa, l'esame analitico può prendere il via dal cinematografo, che tra gli strumenti di comunicazione sociale ha occupato nel nostro secolo, e continua a occupare indipendentemente dal fatto che oggi viene prevalentemente fruito attraverso il piccolo schermo televisivo, un ruolo preminente sia per la vastità e la profondità dell'impegno culturale, sia per la vastità stessa dell'uditorio. Il cinema, di Maria, si è occupato in molte occasioni, fin dalla nascita, nel lontano scorcio del secolo diciannovesimo. Lo ha fatto, naturalmente, in chiave cristologica, cioè impegnandosi in un'attenzione alla Madonna ogni qual volta affrontava la difficile tematica della vita di Cristo.
       Siamo nell'alveo di quello che qualcuno ha chiamato «cinema religioso», ma che probabilmente sfugge a etichette di comodo. È molto illuminante, in proposito, una dissertazione del critico francese Amédée Ayfre4 «sulla capacità del cinema di evocare un mondo veramente religioso o più esattamente una dimensione veramente religiosa del nostro mondo». Il cinema, dice Ayfre, si serve, per definizione, di mezzi puramente umani: una storia, dei personaggi, luci, ombre, per farci intravedere, indovinare quel mondo soprannaturale che, ancora per definizione, oltrepassa l'uomo.

«Non si tratta, badate bene, semplicemente di dirci a parole, o anche con immagini, come può farlo un predicatore o un catechista, che un tale universo esiste. Non si tratta semplicemente di farci comprendere intellettualmente le leggi o le strutture di quel mondo soprannaturale, come può farlo un trattato di filosofia. L'assunto è molto più delicato. Si tratta di arrivare ad evocare veramente quel mondo, a realizzarlo, a farlo per così dire esistere davanti a noi, in maniera concreta. In altre parole, si tratta di farcelo credere. Intendo, di farcelo credere esteticamente, e per tutto il tempo della durata della proiezione. E, da questo punto di vista, credenti e non credenti sono sullo stesso piano».

      Uomini di lettere come Eschilo, Racine, Greene e Claudel hanno saputo creare dei mondi

«la cui solidità, la cui coerenza, la cui esistenza s'impongono a ogni lettore e ad ogni spettatore suscettibile di un minimo di attività estetica. Il problema che si pone per noi è sdi sapere se il cinema ha saputo creare, con i mezzi di cui dispone, dei mondi tanto densi sul piano religioso quanto quelli di Graham Greene o di Claudel e capaci di imporsi, almeno esteticamente, a ogni spettatore in buona fede».

      In due parole: il cinema ha anche lui le sue cattedrali? La risposta di Ayfre è piuttosto amara: il miracolo non si produce. I personaggi non riescono ad apparirci come «testimoni dell'invisibile». I mezzi sono troppo esterni, troppo superficiali. Mancano di densità, di spessore per essere capaci di evocare un mistero nascosto. Si fondano troppo su ciò che si vede, su ciò che luccica, su concettini ed emozioni facili per poter far prevedere qualcos'altro dietro di sé.
       In realtà il cinema non è che gioco di luce. Come tale, o si propone di fotografare la realtà o cerca di aprire spazi alla fantasia. Nel primo caso, il soprannaturale rimane tendenzialmente lontano, perché luci e ombre sono pur sempre materia, cioè antitesi rispetto ad esso. Nel secondo caso, il gioco non funziona per definizione, poiché la realtà soprannaturale è pur sempre una realtà, e non è da confondersi con la fantasia.
       Battaglia perduta in partenza, dunque? Non completamente, sempre che alla comunicazione per immagini non si affidino compiti esagerati o comunque al di là del potenziale naturale dei mezzi. Ed ecco il mezzo cinematografico che, in poco più di ottant'anni di vita, ci propone il Vangelo e anche il mistero mariano con una ripetitività singolare, quasi che ogni esperienza facesse salire uno scalino e ne facesse scendere un altro nello stesso istante, offrendo nuove risposte alle possibilità espressive del mezzo nel contesto esaminato e al contempo aprendo il varco a nuovi interrogativi.
       Il primo film ispirato al Vangelo fu realizzato in Francia, nel 1897, per iniziativa di un religioso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, Fratel Bazile, da un fotografo - regista di nome Kirchner, detto Léar. Fu una forma di spettacolo di derivazione settecentesca, i «quadri viventi». L'idea di partenza era infatti quella di dare alla gente il «senso del meraviglioso» come avevano fatto i pittori e i predicatori del Settecento. Ma alle spalle c'erano anche le Sacre Rappresentazioni, come quelle di Horitz e di Oberammergau. Praticamente, tutti i padri del cinematografo si cimentarono in operazioni di questo tipo: Lumière, Meliés, Gaumont, Pathé, Zecca; addirittura il nostro Fregoli. Maria, in questi film, aveva la sua tradizionale collocazione pittorica. Ne «La vita e la Passione di Gesù Cristo» di Ferdinando Zecca (1902 - 1907), per esempio, compariva in nove dei venticinque «quadri», come personaggio fisso ma non principale di altrettanti episodi.
       Maggior risalto al «personaggio Maria» venne dato in film posteriori, come gli italiani Mater Dolorosa (Caserini, 1912) e Alma Mater (1915), piuttosto oleografici in verità nel loro rispetto della tradizione iconografica corrente. «Anche figurativamente - scrive Angelo Lucano5 - essi si rifanno alle statue ricoperte di stoffe ricamate e con candidi pizzi all'accollatura e ai polsi, numerose nelle chiese fino dal 1700». II secondo di questi film, comunque, già a suo modo adombrava una attualizzazione del personaggio speculando sulla presa emotiva non indifferente sulle madri che soffrivano per i loro figli impegnati al fronte nella prima guerra mondiale.
       La filmografia di film ispirati direttamente al Vangelo comprende Christus di Giulio Antamoro (1914), I. N.R.1. di Robert Weine (1923), 1l Re dei Re di Cecil De Mille (1927), Golgota di Julien Duvivier (1934), ancora Il Re dei Re di Nicholas Ray (1961), La più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965). Ma i tre episodi più significativi dal nostro punto di vista sono i recenti film: Il Vangelo secondo Matteo di Pierpaolo Pasolini (1964), Il Messia di Roberto Rossellini (1975) e Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (1977). Ciascuno a suo modo, costituiscono esempi di uso diverso del mezzo cinematografico (televisivo) per comunicare «il sacro». Ciascuno a suo modo, rappresentano anche tre angolazioni differenti nella presentazione del personaggio di Maria.
       I risultati di queste operazioni culturali sono fin troppo noti, perché le tre opere sono notissime al pubblico. Riporteremo qui, a titolo indicativo, alcune parole dei tre registi, che aiutano a capire quelle angolazioni. Scrive Pasolini nella sceneggiatura del suo film:

«Maria è una giovinetta, ma lo sguardo è profondamente adulto: vi brilla, vinto, il dolore. Il dolore che si prova nel mondo contadino (l'ho visto in certe giovanette friulane, durante la guerra: un dolore quasi precostituito, uno stato in cui si entra fatalmente, perché si è umili). È una giovinetta ebrea, bruna, naturalmente, proprio `del popolo', come si dice; come se ne vedono a migliaia, con le loro vesti scolorite, con i loro `colori della salute', il loro destino a non essere altro che umiltà vivente. Tuttavia c'è in esse qualcosa di regale: e per questo penso alla Madonna incinta di Piero della Francesca a Sansepolcro: la madre-bambina. II ventre leggermente gonfio, appuntito, per la miracolosa gravidanza, dà a quella giovanetta che tace, col suo dolore, una grandezza sacrale».

E ancora, più avanti, così Pasolini descrive un'altra sequenza ambientata nella casa di Giuseppe:

«Maria col bambino che le succhia il seno. Una maternità purissima, ma 'realistica'. Voglio dire che l'immagine di Maria col Bambino è una di quelle che l'uomo conosce come l'immagine iconografica, insieme a quella della crocifissione, più tipica della sua vita; ma, in questa, non ci deve essere nulla di agiografico o di aprioristicamente sacro. II realismo consiste nel fatto che intorno alla Madonna ci sono gli oggetti reali, e perciò stesso commoventi e infine sacri, della sua reale vita di sposa povera».

      Come si vede, preoccupazione principale del regista era quella di evitare l'agiografia tradizionale, ma rapportando la realtà di Maria a una visione parziale, popolana, contadina: uno sforzo tenace di recupero di una realtà concreta e tangibile di Maria, per reazione alle ripetute e successive idealizzazioni che avevano rischiato di trasportarla in una sfera troppo lontana dagli uomini. Non a caso, nelle scene del dolore, nella parte della Madonna troviamo la mamma del regista, come riferimento diretto alla concretezza di una condizione umana che si perpetua nel tempo.
       Nel Messia di Rossellini, la Madonna è sempre giovane, fino alla. fine del film. Egli diceva infatti che non avrebbe mai sopportato l'idea di farla invecchiare con il ridicolo trucco delle rughe:

«Che bisogno c'era? - diceva -. Maria è Maria, e basta. Sta lì, è complice di Gesù sempre. Gli unici due che sanno sono lei e Gesù».

      In effetti, Rossellini, anche se diceva di non essere credente, la sapeva più lunga di tanti altri, e la raccontava più lunga. Maria non può invecchiare, Maria è sempre giovane perché il «fiat» dura tutta la vita. E anche perché gli occhi di Maria che guarda Gesù fra i dottori del tempio o sul calvario sono in sostanza gli occhi nostri. Guardiamo attraverso gli occhi di lei, attraverso l'umanità docile di lei. Ed è uno sguardo che non può invecchiare, perché è lo sguardo pieno di speranza di chi ha creduto e crede che la Croce non è una sconfitta.
       Zeffirelli, infine, secondo l'opinione certamente non sospetta di Gianni Baget-Bozzo «ha riscoperto il culto mariano».

«Tutti hanno bisogno della fede - dichiarò Zeffirelli in un'intervista a L'osservatore Romano -, meno un personaggio solo, che è Maria. Maria sa, non ha bisogno della fede. Tutta questa conoscenza e consapevolezza l'accompagna sempre. Io, in tutta l'episodica evangelica, non ho voluto fare una Maria disperata; neanche vicino alla Croce. Per quanto anche visceralmente è una donna che ha sofferto molto nel suo dolore, lei sa che colui che viene crocifisso è Dio. Ha questa sublime consolazione. Nell'Annunciazione Maria è l'eletta fra le donne. Lei risponde a un messaggio, a un invito misterioso. È lei a comunicarci un fatto misterioso: ed è la notizia che riguarda Elisabetta. Tu partorirai un figlio, e anche Elisabetta tua cugina, nella sua vecchiaia, è in attesa di un figlio... Non vi è limite al potere divino. Questa notizia mette tutti in uno stato di estrema confusione, non perché dice di essere incinta, ma perché sua cugina Elisabetta è incinta pur essendo vecchia. È frutto della mano di Dio. È inquietante come messaggio... Noi tutti moriremmo ridendo, allegramente, se avessimo la consapevolezza di Maria, che sa. Noi al massimo abbiamo fede. E la fede ci conforta sempre. Ma il sapere è qualcosa di più della fede... E se non si capisce Maria, non si capisce nemmeno Cristo».

      In pratica, Zeffirelli cerca poi di risolvere l'antico dilemma del realismo non riduttivo rispettando tutta la dimensione umana del personaggio fino a includere nella sceneggiatura le doglie del parto, ma ricorrendo a magistrali acrobazie cromatiche e scenografiche per arricchire esteticamente la descrizione dell'ambiente in cui si collocò l'avventura umana e soprannaturale della Madonna.
       Il cinema, praticamente, è arrivato fin qui. Altri noti registi si fermarono un passo prima, come Dreyer, che scrisse una sceneggiatura tratta dal Vangelo ma non riuscì a realizzare il film (ma il testo è stato ripreso in teatro), e come Maurice Cloche, autore di Monsieur Vincent, un film sulla vita di San Vincenzo de' Paoli; egli fu una volta sollecitato da Don Milani a fare un film su Gesù. È interessante, in proposito, rileggere una lettera che Don Milani scrisse a Cloche in quell'occasione, in cui si parla, non marginalmente, del personaggio- Maria.

«Si potrebbe presentare in scena Maria - scrive il sacerdote di Barbiana 6. Qualche episodio della sua vita di orfanella a Nazareth potrebbe introdurci nell'ambiente ebraico: l'attesa del Cristo, la religiosità profonda che pervade tutta la vita di questo piccolo popolo d'altra parte così infelice, forse volgare, primitivo, urtante, brutale per un'anima come Maria. Ma nello stesso tempo, la tristezza dei peccatori senza speranza di perdono, dei paralitici senza speranza di paradiso, qualche invocazione o forse imprecazione al Cristo che non viene, faranno capire allo spettatore quanto l'ora fosse matura, urgente la necessità della sua venuta».

      Ancora una volta, dunque, sulla pagina ma non sulla pellicola, l'idea di introdurre il personaggio di Maria quasi «in soggettiva», in modo che lo spettatore guardasse con gli occhi di lei, e magari pensasse con la mente disposta come quella di lei. In realtà, la storia di questi episodi cinematografici realizzati e non realizzati è appena la storia di tentativi, di barlumi, di intuizioni. Una messe più abbondante si potrebbe ricavare esaminando, all'interno della storia del cinema, momenti e occasioni in cui sofferenze e certezze di Maria si intravvedono in trasparenza in personaggi di donne comuni del nostro e di altri tempi. Ma anche una selezione di questo tipo rischia di essere alquanto deludente, se si pensa, in generale, alla dimensione piuttosto riduttiva della donna offerta abitualmente dal cinematografo.
       Il mezzo televisivo, come si accennava, ha fatto e continua a fare la sua parte con strumenti cinematografici. «Gesù di Nazareth», anche se di dimensioni quantitativamente molto vaste, non è che un film, e come film ha poi abbondantemente circolato nelle sale in un'edizione ridotta di circa quattro ore. Parimenti, molti dei film sopra citati sono trasmessi diverse volte sul video e proprio grazie al video (il caso è tipico de Il Messia di Rossellini) hanno potuto raggiungere una platea di milioni di persone.
       Ma la televisione va considerata anche e soprattutto come mezzo per la trasmissione diretta della realtà del nostro tempo, come specchio della cronaca quotidiana. E qui si innesta direttamente la testimonianza mariana recata con tanta frequenza e con tanta intensità dal Santo Padre Giovanni Paolo II, che fin dall'inizio del suo pontificato ha invitato assiduamente l'umanità a guardare a Maria per giungere a Cristo, poiché egli considera l'ottavo capitolo della costituzione conciliare Lumen Gentium come la magna charta della mariologia per la nostra epoca. Uno studio dell'Accademia Mariana Salesiana ha contato, nel primo anno di pontificato di Papa Wojtyla, ben 288 interventi pubblici, quasi uno al giorno, sulla Madonna, e 284 nel secondo anno. Nel suo percorso attraverso i continenti, il Papa ha incluso e continua a includere sistematicamente i più noti e i meno noti santuari mariani, e ogni volta la televisione ce ne porta in casa le immagini, accompagnate dalla parola del Papa.
       Un filo conduttore non occasionale lega questi pellegrinaggi e questi interventi: l'affidare a Maria, di volta in volta, le comunità, i popoli, le Chiese, e in particolare quelli e quelle per cui la vita è più difficile e la sofferenza è più grande. Uno dei primi discorsi televisivi del Santo Padre, quello dell'8 dicembre 1978 in Santa Maria Maggiore, fu molto esplicito sull'argomento:

«Il Papa desidera affidare la Chiesa in modo particolare a Colei in cui si è compiuta la stupenda e totale vittoria del bene sul male, dell'amore sull'odio, della grazia sul peccato. Le affida se stesso, come servo dei servi, e tutti coloro che egli serve, e tutti coloro che con lui servono».

      Se Pio XII prediligeva la parola «consacrare» e Paolo VI la parola «raccomandare», Giovanni Paolo II intende «affidare» a Maria la Chiesa e gli uomini.

«Mi sembra il verbo più adatto - ha scritto in proposito Lucas Moreira Neves su L'osservatore Romano - a tradurre ciò che ritengo più originale nella preghiera di Giovanni Paolo II, e cioè la consapevolezza delle sfide che la Chiesa e l'umanità devono affrontare nel peculiare momento storico che esse vivono, la consapevolezza parimenti delle possibilità e speranze di cui sono cariche l'una e l'altra e il desiderio di depositare questo tesoro (di affidarlo) nelle mani di una Madre, capace di custodirlo».

      Il più penetrante e diffuso degli strumenti di comunicazione sociale, la televisione, si fa canale di trasmissione di questa tensione permanente del Santo Padre, e ci fa volgere il pensiero a Maria in una misura di eccezionale concretezza, in rapporto cioè alle situazioni concrete di spazio e di tempo in cui i popoli del mondo vivono e vengono visitati dal Papa, in segno di sollecitudine pastorale e di condivisione diretta delle loro angosce e delle loro speranze. «L'eterno amore del Padre- è detto nella Redemptor Hominis - si avvicina ad ognuno di noi per mezzo di questa Madre ed acquista in tal modo segni più comprensibili ed accessibili a ciascun uomo. Di conseguenza, Maria deve trovarsi su tutte le vie della vita quotidiana della Chiesa», che sono poi le vie realistiche dell'uomo concreto giunto alle soglie del Terzo Millennio, dell'uomo che vive e convive con i mass media nei quali si amplificano le sue incertezze e le sue paure, ma anche le sue sfide e le sue speranze.
       Ci sarebbero da citare gli altri mass media, a cominciare da quelle radio che, come la Radio Vaticana, trasmettono sistematicamente il Rosario o dedicano alla Madonna particolari cicli di conversazioni per il mese mariano. Ma anche per la radio, al di là di queste manifestazioni dirette di carattere devozionale e culturale, vale il discorso fatto per la televisione sul significato della presenza costante di Maria nella storia degli uomini, tanto più vivida quanto più i tempi sono difficili, perché, come scrisse nel lontano 1931 dal Giappone San Massimiliano Kolbe al Padre Guardiano della «Città dell'Immacolata» polacca,

«conformarsi alla volontà dell'Immacolata non vuol dire coprire con una vernicetta devozionale la pigrizia umana, o divagare perdendo di vista la realtà, oppure adagiarsi su una sorta di amaca di fatalismo paracristiano».

      Il Santo aggiungeva che la Volontà di Dio e la Volontà dell'Immacolata non sono la stessa cosa, poiché «quest'ultima è la Volontà della misericordia di Dio (e non della giustizia), della quale Ella è la personificazione». Quanto ciò significhi per gli uomini del nostro tempo, è detto in modo molto chiaro nell'Enciclica Dives in misericordia, che completa e storicizza il messaggio contenuto nella Redemptor Hominis.
       La citazione di san Massimiliano Kolbe fa venire alla mente il peso che ebbe ai suoi tempi, proprio grazie a lui, la presenza di Maria nella stampa, con le eccezionali tirature del «Cavaliere dell'Immacolata». In realtà, anche oggi nel mondo sono diverse centinaia i piccoli bollettini mariani in circolazione, di portata però quasi sempre appena devozionale, mentre sulla cosiddetta «grande stampa» si stenta di solito a riconoscere i segni del messaggio mariano all'umanità del nostro tempo.
       Tuttavia eventuali pessimismi vanno corretti alla luce della considerazione di fondo su questi strumenti, che non si sovrappongono dall'esterno sulla nostra vita e sulla nostra storia, ma ne fanno parte integrante nella sostanza. Non ha senso perciò demonizzarli o criminalizzarli, come non ha senso esaltarli miracolisticamente come l'unico modo possibile di trasformare la comunicazione in vera comunione. Forse è improprio anche definirli come possibile «via» per la conoscenza di Maria o di altre realtà soprannaturali. Fanno piuttosto parte di una via più larga, che è semplicemente la via dell'uomo intesa in tutta la sua concretezza e in tutta la sua instabilità. Certo, cinema, televisione, radio, giornali e altri strumenti possono aiutare e aiutano chi si pone con umiltà in stato di ricerca. E certo, nel momento della ricerca, guardare a Maria è la fase più spontanea e più naturale. «La sua maternità -disse Giovanni Paolo II commentando nell'estate 1980 la rappresentazione a Castel Gandolfo dell'Interrogatorio a Maria di Giovanni Testori - che l' ha situata al centro della storia della salvezza ha condizionato sostanzialmente il mistero dell'Incarnazione non solamente come fatto storico ma anche come processo permanente, nel quale siamo tutti coinvolti con la nostra vita umana, con il nostro destino, tutti, ciascuno e anche tutto il cosmo, tutto il mondo visibile di cui facciamo parte».

NOTE

       1 CONC. VATICANO II, Decreto sui mezzi di comunicazione sociale, n. 1
       2 Ivi, n. 2.
       3 Ivi, n. 24.
       4 Vedi: Verità e mistero del cinema, ed. Paoline, 1971, pp. 201-207.
       5 A. LUCANO, Cultura e religione nel cinema, ERI, 1975.
       6 Lettere di Don Lorenzo Milani, Mondadori, 1970.




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