"TIBI SILENTIUM LAUS" IL SILENZIO ORANTE DI MARIA
Bruno Secondin, o. carm

      Mi avventuro in un argomento non facile. Certamente esiste tutta una letteratura pia e devota che parla e straparla del silenzio di Maria. Ma esiste anche a volte una disattenzione teologica e non solo pia, agli atteggiamenti silenziosi, ma allo stesso tempo molto importanti, di Maria. Non vorrei anch'io diventare un chiacchierone a spese del silenzio di Maria, quasi svuotando il suo silenzio del contenuto inesprimibile, per farne una anatomia profanatrice.

      La frase latina posta nel titolo è una delle varianti di interpretazione del versetto 2a del Salmo 65 (“A te si deve lode, o Dio, in Sion”). Nella Bibbia TOB in nota si citano le traduzioni di Aquila e quella aramaica; anche la Bibbia di Gerusalemme mette in nota questa versione riferendola al Testo Masoretico. Per dire silenzio in ebraico si usano varie espressioni; in questo caso la parola doumia: che intende affermare un silenzio vivente, non la semplice mancanza di rumore.

      Certamente il riferimento diretto e immediato della frase e dell'attitudine dell'orante è a Dio: l'atteggiamento silenzioso, lo stare alla sua presenza adoranti e ammirati, silenziosi e in ascolto è lode, è adorazione, è riconoscimento della sua trascendenza e della sua presenza. E' anche la convinzione di molti profeti: quando Dio visita la terra, la disposizione migliore è il silenzio adorante e timoroso (cfr Ab 3,20; Es 15,16; Sof 1,7; ecc.).

      Il silenzio: soffocato dall'ingorgo delle parole e dei suoni

      Questa variante biblica ha affascinato più di uno nella storia: davanti a Dio non sono tanto le parole che valgono, ma gli atteggiamenti del cuore. E spesso le parole finiscono per produrre solo chiasso e confusione. E tutti ci accorgiamo come sia facile scivolare sul multiloquio nella preghiera, anche nella devozione mariana.

      Tutti sappiamo come sia difficile educare la gente a riconoscere nel silenzio una modalità intensa, autentica, vitale della lode a Dio. Si ha paura oggi del silenzio, del vuoto, della assenza di rumori. Anche nella liturgia capita di constatare l'orrore per i momenti di silenzio: lo si riempie e lo si esorcizza sempre con qualche forma di rumore. Ci si sente a disagio: eppure senza questa dimensione silenziosa, quieta, il mistero e la presenza rischiano di scivolar via senza storia nella nostra vita.

      Il silenzio adorante, lo sguardo che scruta e attende, il cuore che non vuole se non stare alla presenza, gratuitamente, senza parole né gesti, l'essere tutto che sta lì, davanti ad una presenza invisibile ma amata e adorata: questo vale tanto quanto parole sincere e formule ispirate. Forse anche di più: perché nel silenzio vivente e intenso Dio e la sua creatura, l'orante e il Vivente, le due esistenze convergono, si ascoltano e si fondono, si compiacciono reciprocamente e si armonizzano.

      “Le parole vere partono dal silenzio e al silenzio ritornano”, diceva Saint-Exupéry: è in questa prospettiva che dobbiamo interpretare i grandi silenzi di Maria, interrotti dalle uniche e sole sette volte che Maria parla. Il silenzio in effetti avvolge la sua vita prima dell'incarnazione della Parola eterna, durante la vita terrena del Verbo incarnato, e ancor più nella vita della Chiesa.

      Una Maria di Nazareth che parla a getto continuo, che dice la sua su persone e avvenimenti, che minaccia o rimprovera a dritta e a manca - come certi strampalati visionari ci vorrebbero far credere - è del tutto extra-evangelica, creazione di fantasia e protesi mal riuscita per ansie patologiche o devozioni isteriche.

      “Il migliore insegnamento di Maria sono i suoi silenzi ”

      Così scriveva qualche anno fa in un piccolo libro Salvador Muñoz Iglesias (El Evangelio de Maria, Ed. Palabra, Madrid 1989; in italiano Áncora). E io credo che abbia proprio ragione. Sia dal punto di vista della quantità delle parole dette da Maria: se si esclude il Magnificat, per il resto troviamo pochissime espressioni (sono quaranta parole, tutto compreso). Sia controllando le parole rivolte a Maria: si tratta di otto frasi in tutto, di elogio (Angelo e Elisabetta), di triste presagio (Simeone) e di apparente distacco (Gesù). E sia dagli atteggiamenti interiori ed esteriori che vengono segnalati (dai Vangeli e da un cenno negli Atti) nelle varie circostanze: e in questo caso si tratta di elementi molto ricchi di significato. E li sa cogliere solo chi ha fatto del silenzio la sua dimora, la scuola della sapienza e del dialogo orante con Dio.

      In tutta la vicenda evangelica di Maria questi silenzi sono ben più numerosi delle parole dette o a lei rivolte, e meriterebbero una particolare attenzione, e una adeguata ermeneutica, per cogliere in essi proprio la qualità del “silenzio orante”, dell'atteggiamento contemplativo o adorante, riflessivo o intuitivo proprio del mistico.

      Vediamo alcuni di questi silenzi. Mi soffermo su tre situazioni narrate dai Vangeli.

      1. Turbata e pensosa

      Così appare Maria nella prima descrizione evangelica, quando l'angelo la saluta (Lc 1,28). Assieme all'accenno - nello stesso contesto - che era giovane e promessa sposa a Giuseppe - quindi già aveva nel suo cuore sentimenti ed emozioni tipiche di una giovane destinata al matrimonio - non c'è altro nella prima apparizione di Maria nel Vangelo di Luca. Il silenzio riflessivo in questo caso segnala una persona che intuisce, anche se vagamente, il passaggio di Dio attraverso la sua vicenda umana, in maniera del tutto inattesa.

      Doveva allargare gli orizzonti della sua autocoscienza (di sposa, di compagna, di madre) in maniera non comprensibile: far convergere il sogno di una famiglia, di una intimità sponsale con Giuseppe, di una unione piena, feconda e vitale, con i disegni di Dio. Soprattutto con la volontà di Dio di fare dell'umanità una sola famiglia, proprio riunita da quel Figlio che lei doveva accettare di generare con il suo grembo ancora vergine, come dono che scendeva dall'alto. Possiamo vedere che anche per Giuseppe (cfr Mt 1, 18-25) c'è una simile esperienza di silenzio obbediente e pensoso e di dilatazione dei sogni di un giovane sposo. Dovrà fare da padre al figlio di Dio, il "Dio con noi"; il suo sogno di padre e il suo ruolo devono dilatarsi a dimensioni infinite, essere un segno visibile della paternità di Dio.

      Il turbamento di Maria e la sua domanda: “Come è possibile? Non conosco uomo” (Lc 1, 34) rompono appena questo silenzio, ma senza eliminarlo, anzi esaltandolo. Non possiamo interpretarli sovrapponendo solo nostre considerazioni e nostre parole. Si tratta di risonanze profonde, esistenziali, non fatte di parole e di linguaggi sonori, ma di dilatazione degli orizzonti e delle attese legittime, che sarebbe profanazione riempire con nostre elucubrazioni.

      La sua stessa risposta finale - “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38) - tanto commentata nei secoli, e con esagerazione affettuosa, per le implicazioni che spirituali e teologi vi hanno saputo scovare e scavare, perché non ricondurla invece alla sintassi del silenzio orante, della fede e dell'amore che riconosce solo chi sa cosa vuol dire sentirsi soverchiati da una misteriosa presenza?

      Noi vi vediamo subito l'obbedienza, l'eco della disponibilità del servo di Isaia. E' giusto, perché la sacra Scrittura è come un tessuto in cui tutto si intreccia e si compone in unità. Ma non sarebbe anche meglio vedervi una disponibilità silenziosa, una apertura della mente e anche del suo stesso grembo, ad una presenza misteriosa che solo nella solitudine, nelle sensazioni più segrete ed intime, nella paziente e appena percepibile tessitura di una nuova creatura dentro la carne e il sangue della madre, si fa realtà?

      Proprio questi atteggiamenti io sottolineerei, in connessione con quel viaggio affrettato su per i monti di Samaria e Giudea, per raggiungere la cugina Elisabetta. Sono i giorni nei quali cominciano le prime sensazioni fisiche nella madre incinta. Sono sensazioni, ma sono anche titubanze, emozioni ma anche paure, gioia ma anche domande, fretta ma anche attenzione a non fare sforzi.

      Io interpreterei con particolare attenzione antropologica questi passaggi silenziosi: la fretta ha avuto mille interpretazioni. Ma se fosse anche un segno del bisogno di una giovane donna, sorpresa dalla incipiente maternità, di confidarsi con un'altra donna che il Signore aveva egualmente trasformata, fin dal profondo, con la sua grazia? Lo Spirito di fecondità, che conoscono tutte e due come grazia, diviene anche Spirito di comunicazione, nel reciproco riconoscimento.

      Una comunicazione liberante, per l'una e per l'altra. E' evidente che anche Elisabetta ha i suoi imbarazzi: si ricordi che ella si era tenuta nascosta per cinque mesi (Lc 1, 24s). E non si dimentichi che, a quanto pare, Maria non aveva parlato della sua incipiente maternità al giovane sposo Giuseppe, tanto che questo apparirà tormentato e pensieroso, per l'imprevista complicazione (Mt 1, 19s). Il prolungato e certamente angosciato silenzio delle due donne, esplode in un duplice canto: canta Elisabetta e canta Maria, tutt'e due riprendendo il linguaggio delle matriarche della prima alleanza.

      Perché quel linguaggio lo hanno assimilato ed ora sgorga spontaneo, esse si sono immedesimate nelle tradizioni oranti e nei sogni dei padri. E io non vedo problemi per il fatto che la redazione finale dei testi sia stata anche ritoccata e perfezionata dalla sensibilità orante della prima generazione dei credenti in Cristo: anch'essi si sono immedesimati nella ruminatio tipica di questi testimoni, che fanno da ponte tra le due alleanze. L'autenticità non sta tanto nella diretta composizione delle espressioni, ma nella sintonia profonda con il cuore degli oranti e dei giusti di generazioni e generazioni. E' una eredità di famiglia, non una recitazione autonoma.

      Quello che viene trascritto e tramandato non esisterebbe se non fosse proprio frutto di questo prolungato e silenzioso ascolto della memoria e dei sogni di un popolo. Da questo ricordo della mente e del cuore germina la parola, il canto, la sua struttura; ma ha risonanze che la precedono e la seguono, a cui si accede solo attraverso un nuovo silenzio vivente, di empatia e di stupore.

      2. Silenzio, tenerezza e pensosità

      Questo ritroviamo ancora nei vari episodi della Natività. Non intendo analizzare i vari momenti, che tutti conosciamo bene e portiamo impressi nella memoria affettuosa e contemplativa del cuore. Vorrei solo con voi fare alcune sottolineature. Anzitutto sulla totale assenza di parole: non parla Maria, non parla Giuseppe - anche se certi passaggi esigono, naturalmente, che abbiano parlato, chiesto, commentato, discusso, condiviso - ma solo agiscono in modo simbolico, comunicativo. A noi tocca dare forma e senso a certe parole solo all'apparenza comuni e scontate. E' chiaro che c'è stato un dialogo fra i pastori e i genitori del bambino; è chiaro che per dare il nome al piccolo, Giuseppe avrà espresso il suo parere, è chiaro che ci sarà stato un dialogo fra Simeone, Anna, i genitori, gli inservienti al tempio, ecc.

      Ma vorrei richiamare il valore di alcune espressioni molto conosciute: Maria da parte sua custodiva tutti gli eventi meditandoli nel suo cuore (Lc 2, 19); Sua madre conservava tutte queste cose nel suo cuore (Lc 2, 51). A cui aggiungerei anche: Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui (Lc 2,53).

      Libri interi sono stati scritti a commento: non occorre aggiungerne altri. Solo vorrei sottolineare che non si possono capire appieno queste affermazioni, se non le collochiamo nell'orizzonte di un dialogo fra le cose che succedono - parole, eventi, stupori, presagi, ecc. - e il senso che tutto questo ha in un piano di Dio, nel contesto della fedeltà promessa ai padri (Lc 1, 55).

      Questo conservare con diligenza e agitare insieme nel cuore eventi e parole (in greco rhèmata), mescolandoli con lo stupore e la cura di non perdere di vista nulla, ha lo scopo di tenere accesa la lampada della memoria, perché non si dissolvano nell'oblio. Ma ha anche un significato orante: in fondo è proprio con lo stesso esercizio della conservazione continua e appassionata, che il popolo ha risposto alla presenza attiva di Dio con il canto e il pianto, la fedeltà e il pentimento, la supplica e la lode, l'adorazione e il silenzio.

      Conservare e ruminare con cura e quasi con stupore per scoprire il filo d'oro che tutto unisce e tutto interpreta, è quello che Mosè ha tante volte raccomandato negli ampi discorsi al popolo, riportati nel Deuteronomio. E Maria continua ad ascoltare con l'orecchio del cuore la musica segreta dell'agire di Dio, del suo svelarsi immanente. Solo la decantazione del tempo e la custodia appassionata ne possono distillare il sapore vero e e aprire la porta segreta del comprendere e dell'interpretare.

      In fondo questo lavorio nel tempio del cuore è esercizio di un silenzio adorante, è stupore che ammaestra a non dare per scontato l'incontro e il suo significato, è la scuola della fedeltà che si nutre meno di parole e più di vigilanza ammirata e ricordi sempre di nuovo assaporati. Contro ogni entusiasmo veloce e immediato, al di là del tremore che certi presagi potevano suscitare nel cuore di una madre, senza estraniarsi in una curiosità popolare che dimentica in fretta le cose, Maria (ma certamente anche Giuseppe con lei), ama abitare il tempio del silenzio, pellegrinare verso il luogo più vero che molteplici rhèmata facevano sospettare, ma senza svelare del tutto.

      E' nel luogo più vitale e recondito del cuore che luce divina e fede che cerca e scruta si incontrano, non per una conclusione razionale, ma per un dialogo senza parole, carico però di abbracci e gioia. Appunto un silenzio orante, che non è puro contesto, ma plenitudo orationis.

      3. Maternità ferita, maternità moltiplicata

      Voglio fermarmi su questa scena della morte in croce del Signore, mentre lì accanto la madre impietrita e impotente è pure lei piagata - una piaga sanguinante nel cuore, come trapassato da una spada (lo aveva presagito Simeone) - e vive con il figlio della sua carne l'ultima lotta, l'ultimo dono, l'ultima sfida alla speranza.

      C'erano molte donne che seguivano Gesù, fin da quando predicava in Galilea, ricordano gli evangelisti, in particolare Luca (Lc 8, 2-3; cfr Mc 15,41; Mt 27,55-56; Lc 23,49), ma fra esse non è nominata la Madre. Però possiamo facilmente includerla, perché quelle stesse donne si trovano presenti - e Marco lo ribadisce che erano quelle che lo avevano seguito - presso la Croce; e fra esse Giovanni nomina la Madre. Anzi è proprio lui a staccarla dagli altri astanti, e a mostrarla in una icona di dolore e di silenzio.

      Piagata e insieme ritta, a vivere in silenzio sommo con il Figlio l'ultima rivelazione della presenza di Dio, come guida e artefice della salvezza dell'umanità. Non precipitiamoci subito a vedere in questa scena tutto quello che poi si è voluto vedere e proclamare. Lasciamola cristallizzarsi così: tre corpi umiliati e scorticati, che rantolano lottando con il dolore e la morte che sopravviene. E attorno urla di soldati senza troppe emozioni, irrisioni e insulti da parte di altri notabili, dagli occhi tristi e dal cuore insensibile. E poi quel gruppetto di donne, che osano assistere - contro ogni senso del pudore - a questi rantoli e a questa ignominia.

      Fra questi presenti, Giovanni focalizza l'attenzione in special modo sul discepolo amato e la Madre di Gesù (Gv 19, 26-27). Non si tratta solo di compassione e di vicinanza, di dolore e di silenzio pieno di orrore. Si tratta anche di un silenzio che nasconde una lotta vitale nel cuore di ciascuno. La lotta fra il volto di Dio rivelato da quel Figlio diletto nelle parabole, nei gesti, in tutto il convivere e questo nuovo modo di rivelare il Padre. “Innalzato da terra”, diviene icona suprema e sconcertante del disegno di salvezza del Padre: guardano per intravedere, guardano lottando contro la sensazione più sconcertante.

      Quei due vivono il dolore muto, ma allo stesso tempo adorano una presenza che intuiscono ma non capiscono, una promessa di vita anche se si sta spegnendo nella morte. Nell'oppressione di una morte violenta devono vedere il dono della libertà, che si innesta per ferita sanguinante sul corpo del maestro e del Figlio. Sono loro i primi ad esplorare, e quasi intravedere, nella speranza, le prime luci di un giorno diverso, di vittoria e non di sconfitta, di risurrezione e non di morte, di liberazione e non di oscurità.

      E' un dialogo di sangue: quello del Figlio di Dio e quello del dolore di chi vi assiste, in un prossimità rischiosa e penosa. Madre e discepolo non hanno altro da offrire a sostegno dell'ultima rivelazione di Dio se non le loro mani nude, il loro cuore sanguinante, il loro sforzo di vedere oltre e attraverso. In essi stessi nasce una nuova vita, una nuova comunità, affidandosi a Colui che il Figlio ha chiamato il “Dio dei viventi”.

      In questa situazione io leggo il senso dell'ultima consegna di Gesù: “Ecco tuo figlio - ecco tua madre”. Dolore di agonia e dolore di parto intrecciati insieme: "Maria, non più madre perché suo figlio sta morendo, ritorna ad essere madre: “Ecco tuo figlio”; madre di maternità ferita, un figlio muore; maternità risanata: “Ecco tuo figlio”; maternità moltiplicata" (E. Ronchi).

      Dentro il sole nero del giorno dell'umiliazione, spunta un'alba di vita, una maternità che si moltiplica, abbraccia e accoglie tutti coloro che sapranno vedere nell'innalzato la gloria vincitrice, la fecondità che nasce dal dolore, la vita che nel sangue fiorisce. Io leggo per questo in quel silenzio e in quella presenza ammutolita il vertice del dialogo adorante, della preghiera di Maria. Non una preghiera di formule e di gesti: ma l'estrema povertà di parole e di gesti, il nulla della bocca e del cuore; e Dio parla ed è ascoltato, soffre e muore ed è adorato e abbracciato; accenna ad una nuova relazione di maternità e di maternità, e fa germogliare una nuova immensa famiglia.

      “E il discepolo la prese fra le sue 'cose più care'” (Gv 19, 27): ricomprendendo da questa relazione la sua stessa identità, trovando in lei quasi una nuova definizione di sé. Insieme si vincolano a leggere in esperienze, parole e gesti di Gesù, un senso ulteriore, con occhio di madre e di figlio, di uomo e di donna, a conservare e meditare nel cuore quell'ultimo passaggio, quella consegna, per farli diventare lode e canto.

      Un atteggiamento che si prolunga e si tematizza in forma ancor più esplicita nell'accenno degli Atti: “Erano assidui e concordi nella preghiera insieme con alcune donne e con Maria, la Madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14). Non vi vedrei una specie di ricomposizione dell'armonia, della serenità, dopo lo scandalo della croce, dopo la fatica della riconciliazione postpasquale. Piuttosto vi vedo il realizzarsi, moltiplicato, del dono fatto da Gesù morente: quel supremo gesto nel colmo del dolore, ora diviene supremo luogo della maternità moltiplicata, della rilettura dell'identità comune, di discepoli e credenti, di risorti e feriti, di guariti e fragili.

      Maria non ha niente da dire, ma solo condivide la memoria e l'attesa dei nuovi orizzonti, lei che gli orizzonti li ha visti tante volte stravolti. Insieme con i discepoli fratelli e alcune donne ella ricorda ancora la misericordia: “Ricordandosi della sua misericordia”, canterà nel magnificat. Partecipa alla rilettura della memoria - fornendo anche i suoi ricordi personali alla riflessione comune - e aprendosi con tutti al dialogo orante, alla gratitudine umile, alla lode gioiosa.

      Conclusione

      Mi fermerei qui: non so se ho soddisfatto le vostre attese, e le vostre maniere di interpretare il silenzio orante di Maria. Da parte mia ho preso molta ispirazione dal libretto di Ermes Ronchi, e con una sua frase voglio concludere: “In Maria l'uomo è reso grembo capace di tenerezza, di commozione, di compassione, di pietà e di grazia, bocca che si dischiude al Magnificat, occhi aperti sul dolore dell'uomo fino a piangerne, udito attento a percepire il gemito della storia e del creato fino al fremito, piedi pronti a fare passi incontro all'altro” (E. Ronchi, Bibbia e pietà mariana, Queriniana, Brescia 2002, p. 132).

      Lei, Maria, è l'orante per eccellenza, non tanto per le formule scritte - il Magnificat come sappiamo è un testo frutto di coscienza collettiva, più che personale - ma per la capacità di accogliere il dialogo di Dio, con tutto l'essere, fin nelle viscere più misteriose e vitali. Per la perseveranza con cui si è esposta agli eventi della salvezza, conservandoli e ripensandoli, per esserne impregnata e ferita, per condividerne con ogni discepolo che sa amare, il senso e il sapore.

      L'ultima apparizione storica di Maria è quella del cenacolo: dentro la comunità germogliata dal dolore e fermentata dalla speranza, ricca di comunione e implorante una testimonianza con parresia, in procinto di disperdersi fino ai confini della terra. Poi verranno altri accenni, ma non sono storia, ma visione del discepolo amato, simboli e premonizioni suggerite al cuore di colui che l'ha accolta fra le cose più care e preziose.

      Fermiamoci qui, sia anche per Maria il nostro silenzio una lode.

      Nota bibliografica: riteniamo ispirativo il citato libro di Ermes Ronchi, Bibbia e pietà mariana. Presenza di Maria nella Scrittura, Queriniana, Brescia 2002. Segnaliamo anche Giovanni Grosso, Con Maria Figlia di Sion. In ascolto della Parola, Messaggero, Padova 2003. Inoltre sul testo dell'Annunciazione, della Visitazione e del Magnificat, e sull'annuncio a Giuseppe (di Mt 1, 18-25), abbiamo offerto uno sviluppo in forma di lectio divina nel nostro libro: La lettura orante della Parola. 'Lectio divina' in comunità e in parrocchia, vol. 1°, Messaggero, Padova 2001, pp. 79-91, 241-268.


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